“Tutto da scoprire” di Sara Chessa: di titolo e… di fatto

Ho appe­na ter­mi­na­to la let­tu­ra di “Tut­to da sco­pri­re”, rac­col­ta di poe­sie di Sara Ches­sa.
Innan­zi­tut­to devo dire: bel­lis­si­ma. Con­si­glio la let­tu­ra, sen­za “se” e sen­za “ma”. La pote­te tro­va­re su ama­zon a QUESTO LINK.

Nel tito­lo di que­sta ope­ra pri­ma di Sara Ches­sa è con­te­nu­ta la qua­li­tà prin­ci­pa­le. Ovvio che que­sta non era l’in­ten­zio­ne del­l’au­tri­ce ma, ugual­men­te, devo rico­no­sce­re che que­ste poe­sie sono dav­ve­ro tut­te da sco­pri­re. “Tut­to da sco­pri­re”: si dice di soli­to di qual­co­sa che ti sor­pren­de per la sua bel­lez­za. Non che alle poe­sie di Sara man­chi que­sta qua­li­tà per­chè bel­le lo sono dav­ve­ro ma, in que­sto caso, anche per alme­no due altri motivi.

Il pri­mo è lo sti­le: paro­le usa­te con sapien­za, anche se con acco­sta­men­ti con­cet­tua­li del tut­to inu­sua­li ma che, con una sin­te­si spes­so incre­di­bi­le, enun­cia­no con­cet­ti di pro­fon­di­tà in poche pennellate.

Come in “La Nuo­va Stel­la”, che chiu­de con un:

“…L’at­ten­do per­chè, fin da bambina, 
fos­s’an­che a distan­ze siderali 
ne sen­to la luce che si avvicina,
toc­ca gli oppo­sti e non son più rivali.”

Il secon­do è che non vi è trac­cia di quel les­si­co a vol­te pom­po­so, spes­so alti­so­nan­te, sem­pre auto­com­pia­ciu­to, che tan­ti, trop­pi usa­no per dare un tono ai pro­pri ver­si quan­do espri­mo­no con­cet­ti, mi si pas­si il ter­mi­ne, occul­ti o anche solo profondi.

Qui Sara eccel­le dav­ve­ro nel­l’u­sa­re la paro­la più “sem­pli­ce” per espri­me­re con­te­nu­ti di gran­de pro­fon­di­tà in un atti­mo, sen­za per que­sto diven­ta­re ermetica.

L’o­pe­ra è pie­na di que­sti pas­sag­gi, che la ren­do­no dav­ve­ro “tut­ta da sco­pri­re”; for­se il pre­gio mag­gio­re di que­sta rac­col­ta, che per­met­te di “sco­pri­re” appun­to prin­ci­pi note­vo­li, espo­sti con una leg­ge­rez­za (asso­lu­ta­men­te non super­fi­cia­li­tà) che non si incon­tra spesso.

Come in “Ciò che vedi degli altri”

“…Stra­da dis­se­mi­na­ta di ombre
gli occhi tuoi assue­fat­ti, oramai
a sequen­ze di fio­ri sofferenti,
il cui pro­fu­mo non sentirai…”

In que­ste poche paro­le, la per­fet­ta descri­zio­ne non di un’im­ma­gi­na­ria per­ce­zio­ne, ma l’og­get­ti­va pre­sen­ta­zio­ne di uno sta­to di coscien­za pre­ci­so, in cui a vol­te ci si tro­va (per­so­nal­men­te l’ho defi­ni­to “tro­var­si nel­la val­le del­le ombre”). Uno sta­to da cui, se si pro­se­gue nel­la per­ce­zio­ne, andan­do oltre quel­la che rima­ne anco­ra un’ap­pa­ren­za, nono­stan­te già dif­fi­ci­le da coglie­re, si sfo­cia nel con­tat­to con una dimen­sio­ne più pro­fon­da in cui le ombre ritor­na­no ad esse­re quel­lo che sono, appun­to quel­li che “…sem­bra­no dise­gni” ma sono “vian­dan­ti”.

Infi­ne, cosa asso­lu­ta­men­te note­vo­le, tut­ti i ver­si par­la­no un lin­guag­gio gen­ti­le, con una dol­cez­za che non è qua­li­tà abi­tua­le e che, come spes­so nel capi­to­lo “Fede­ri­co”, espri­mo­no un amo­re che non è così scon­ta­to pro­va­re ne, tan­to­me­no, ave­re il corag­gio di esprimere.

In buo­na sostan­za un’o­pe­ra pri­ma ma che di “pri­ma” ha solo la cro­no­lo­gia, per­chè per arri­va­re lì dove è arri­va­ta Sara, è ovvio che di chi­lo­me­tri ne deve aver fat­ti dav­ve­ro tan­ti… “pri­ma”, appunto!

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