Le domande di un ricercatore: prima “come”. Poi, forse, “perchè”

Quan­do ti chie­di il per­chè di una cosa, è la men­te che fa la doman­da. Il più del­le vol­te una doman­da che ha solo una fina­li­tà spe­cu­la­ti­va, con la qua­le, bene o male, non si arri­va a nul­la di sperimentale.

Per que­sto moti­vo il “per­ché” andreb­be stu­dia­to dopo il “come”: per­chè in que­st’ul­ti­mo caso si pre­su­me che si stia cer­can­do il modo di fare una cosa e non il moti­vo per cui acca­de qualcos’altro.

“Come fac­cio a supe­ra­re la pau­ra?”, “Come fac­cio a vede­re di più?”, “Come fac­cio ad ama­re di più”…

Que­ste (o simi­li) sono le doman­de che dovreb­be­ro assil­la­re la men­te di un ricer­ca­to­re, per­chè pre­lu­do­no ad un’e­spe­rien­za, o ad una spe­ri­men­ta­zio­ne sul cam­po che poi è sem­pre esperienza.

Le doman­de che inda­ga­no sul­la cau­sa di un feno­me­no e quin­di ini­zia­no con il fati­di­co “Per­chè…” dovreb­be­ro veni­re comun­que dopo. Non che sia­no inu­ti­li, inten­dia­mo­ci, ma se resta­no le uni­che doman­de che ci fac­cia­mo, non por­te­ran­no mai ad alcu­na cono­scen­za, quan­to ad un sapere.

Il sape­re ci deve esse­re, altri­men­ti non fun­zio­na la fac­cen­da, ma sen­za la cono­scen­za spe­ri­men­ta­le, sen­za l’e­spe­rien­za, resta un guscio vuoto.

C’è comun­que da ope­ra­re un distin­guo. Alcu­ni “Per­chè…” sono in effet­ti fon­da­men­ta­li. Ad esem­pio quel­li che ci si chie­de quan­do ci si accor­ge di qual­co­sa che non va ma non si rie­sce a capi­re bene cosa.

Per esem­pio, quan­do ci si ren­de con­to che qual­cu­no improv­vi­sa­men­te ha pre­so le distan­ze da noi, e non se ne capi­sce il moti­vo, ecco che chie­de­re “Per­chè ti sei allon­ta­na­to? Oppu­re è una mia impres­sio­ne?” è un otti­mo modo per com­pren­de­re se e come si sia com­mes­so un erro­re o si sia tenu­to un com­por­ta­men­to che a quel qual­cu­no, a tor­to o ragio­ne, ha pro­dot­to sof­fe­ren­za (per inci­so nel caso spe­ci­fi­co, nel 99,9% dei casi è anche l’u­ni­co modo per eli­mi­na­re la distan­za venu­ta­si a creare).

Non è comun­que impor­tan­te solo por­si del­le doman­de (o por­le a qual­cu­no che ne sa più di noi), ma anche dar­si o comun­que tro­va­re del­le rispo­ste e poi met­ter­le in pratica.

Se chie­do a qual­cu­no (ovvia­men­te che riten­go esse­re in gra­do di dar­mi una rispo­sta), ad esem­pio, come pos­so fare per vede­re la real­tà in modo più ogget­ti­vo e quel­lo mi rispon­de con un’in­di­ca­zio­ne pra­ti­ca, la pri­ma cosa da fare è pro­prio met­te­re in pra­ti­ca la sud­det­ta indi­ca­zio­ne, sen­za “se” e sen­za “ma”. Non par­lia­mo di ese­cu­zio­ne cie­ca, ovvia­men­te, ma di spe­ri­men­ta­zio­ne pura.

Se chie­do una cosa e poi, anzi­ché spe­ri­men­ta­re l’in­di­ca­zio­ne, mi met­to a disqui­si­re spe­cu­la­ti­va­men­te su quan­to sia o non sia adat­ta l’in­di­ca­zio­ne, su quan­to sia o non sia effi­ca­ce, oppu­re moral­men­te ecce­pi­bi­le, ecco che sono cadu­to nel­la trap­po­la del­la men­te: in altre paro­le ci pen­so ma non fac­cio un caz­zo. Col risul­ta­to che, a lun­go anda­re, sarò addi­rit­tu­ra con­vin­to di aver mes­so (o non aver mes­so) in pra­ti­ca il sug­ge­ri­men­to e andrò maga­ri pure in giro a parlarne.

Una cosa che suc­ce­de mol­to spes­so oggi­gior­no: il mon­do è stra­pie­no di per­so­nag­gi che pro­mul­ga­no gran­di veri­tà, solo per aver­ne let­to qual­co­sa su qual­che libro (quan­do non su Novel­la 2000 o simi­li) sen­za aver com­pre­so nul­la e nep­pu­re mai aver mes­so in pra­ti­ca un solo gram­mo di quel­lo di cui parlano.

Cer­to, dato che il risul­ta­to di un inse­gna­men­to è comun­que qua­si sem­pre dipen­den­te da chi lo met­te in pra­ti­ca, la cosa può comun­que ave­re un suo anche otti­mo fun­zio­na­men­to, fino a che si resta a livel­li ele­men­ta­ri. Ma cosa acca­de se, per fare un esem­pio, qual­cu­no par­la di una tec­ni­ca respi­ra­to­ria che maga­ri non ha mai nep­pu­re pra­ti­ca­to e poi la inse­gna a qual­cun altro e a que­sto “altro” si sca­te­na un qual­che effet­to di quel­li tosti? (E guar­da­te che di Pra­na­ya­ma di que­sto tipo ce ne sono e non pochi…)

Sem­pli­ce: il mal­ca­pi­ta­to dovrà risol­ve­re il pro­ble­ma da solo e, nel­la mag­gior par­te dei casi, andrà poi in giro a dire che quel­la tal tec­ni­ca è peri­co­lo­sa o non por­ta a nul­la. Toglien­do così a se stes­so e ad altre per­so­ne la pos­si­bi­li­tà di spe­ri­men­ta­re qual­co­sa che maga­ri gli avreb­be cam­bia­to la vita (ovvia­men­te in meglio).

Quin­di in buo­na sostan­za pos­sia­mo desu­me­re alme­no due com­por­ta­men­ti con­si­glia­bi­li: il pri­mo è quel­lo di chie­de­re cose che pos­sia­mo met­te­re in pra­ti­ca ed il secon­do… met­ter­le in pratica.

Per sape­re c’è sem­pre tem­po. E’ per cono­sce­re che spes­so non ce n’è abbastanza!

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