Una vecchia soffitta

Mol­ti anni fa nel­l’an­ti­ca casa di mon­ta­gna del­la mia fami­glia nes­su­no ave­va anco­ra mes­so mano alle sof­fit­te e io mi reca­vo spes­so nel­la par­te che era di nostra pro­prie­tà.

Si trat­ta­va del quar­to pia­no rivol­to a nord-est e quin­di il più buio e più remo­to del­la casa.

Vi era­no con­te­nu­ti un arma­dio decre­pi­to, alcu­ni bau­li e mol­ti ogget­ti impol­ve­ra­ti e illu­mi­na­ti dal­la poca luce pro­ve­nien­te da pic­co­le fine­stre dal­le qua­li, all’im­bru­ni­re, spes­so entra­va e usci­va qual­che pipi­strel­lo.

Cosa si va cer­can­do in un luo­go come quel­lo?

Si potreb­be pen­sa­re a qual­che ogget­to di valo­re dimen­ti­ca­to e abban­do­na­to, oppu­re ci si reca spin­ti dal­la sem­pli­ce curio­si­tà di fru­ga­re fra vec­chie cose, ma io cre­do piut­to­sto che vi si cer­chi una “vibra­zio­ne”, una “qua­li­tà” che solo pochi luo­ghi san­no offrire.

Mi rife­ri­sco a quel­la qua­li­tà par­ti­co­la­re che susci­ta il sen­so del miste­ro, che impo­ne doman­de sul ciclo del­la vita e lo scor­re­re del tempo.

Un tale luo­go pro­du­ce quel misto di pau­ra ed ecci­ta­zio­ne che assie­me resti­tui­sco­no ad ogni ogget­to la sua sto­ria dimenticata.

Ricor­do bene gli sti­va­li di mio non­no, col gam­ba­le rigi­do e il cin­tu­ri­no. Sem­bra­va­no voler testi­mo­nia­re che lui era esi­sti­to vera­men­te; era­no impol­ve­ra­ti, con­ser­va­va­no la for­ma dei suoi pie­di e, sul­la suo­la, il ricor­do di tut­ti i suo­li di guer­ra cal­pe­sta­ti.

Ogni mini­mo rumo­re, ogni scric­chio­lio del legno, ogni fru­scio appa­ri­va­no ampli­fi­ca­ti tan­to da cat­tu­ra­re con­ti­nua­men­te la mia attenzione.

Io ama­vo anche sem­pli­ce­men­te aggi­rar­mi per quel­la sof­fit­ta, stan­do ben atten­ta a dove met­te­vo i pie­di per non inciam­pa­re su qual­che asse scon­nes­sa del pavi­men­to.

L’o­do­re di vec­chio che vi si respi­ra­va, i miei movi­men­ti len­ti e cau­ti e tut­ti gli ogget­ti spar­si al suo­lo e nei bau­li aper­ti pro­du­ce­va­no in me un’im­pres­sio­ne par­ti­co­la­re: come se ad un tem­po aves­se­ro pre­so a coe­si­ste­re mol­te­pli­ci figu­re di un calei­do­sco­pio, gene­ran­do per un istan­te la per­ce­zio­ne di uni­tà con tan­ta sto­ria che lì si era accu­mu­la­ta negli anni e del­la qua­le io desi­de­ra­vo sen­tir­mi parte.

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