Evoluzione II

«GGHUARRR!!!» ran­to­lò l’uo­mo por­tan­do­si entram­be le mani all’in­gui­ne pri­ma di lasciar­si cade­re a ter­ra, ran­nic­chia­to nel vano ten­ta­ti­vo di con­te­ne­re il dolore.

L’al­tro, in pie­di, lo guar­dò per qual­che istan­te, con le mani affon­da­te nel­le tasche dei pan­ta­lo­ni e la testa un po’ pie­ga­ta di fian­co, come quan­do ci si imbat­te in qual­co­sa di inso­li­to e curioso.

Poi si abbas­sò, lo affer­rò sal­da­men­te per le cavi­glie, e comin­ciò a tra­sci­nar­lo lun­go il bre­ve via­let­to che por­ta­va al can­cel­lo ester­no, e quin­di alla strada.

E a quel pun­to – chis­sà per­ché – alla signo­ra Ines ven­ne da ridere!

Non una di quel­le sane risa­te che nasco­no dal­la pan­cia, come quan­do assi­ste­va a cer­te esi­bi­zio­ni del­la Cor­ri­da, il saba­to sera. No: piut­to­sto un riso mali­gno, sen­za alle­gria, che sem­bra­va gene­rar­si fra il pet­to e la gola per usci­re a scat­ti dal­le lab­bra ser­ra­te con pic­co­li col­pi come di tos­se stizzosa.

Un po’ si ver­go­gna­va, e avreb­be volu­to smet­te­re, ma quel­la mal­sa­na ila­ri­tà sem­bra­va incon­te­ni­bi­le. Anzi, addi­rit­tu­ra sem­bra­va aumen­ta­re di secon­do in secon­do, tan­to che a un cer­to pun­to, scos­sa da un sin­ghioz­zo, sbat­té la fron­te con­tro la tap­pa­rel­la mez­za abbas­sa­ta, pro­du­cen­do uno schioc­co che, nel silen­zio del pri­mo mat­ti­no, risuo­nò come una fucilata.

Così il suo vici­no, il signor Mau­ro, alzò lo sguar­do dal­la sago­ma ran­to­lan­te che sta­va tra­sci­nan­do e la vide, con i suoi capel­li ormai qua­si del tut­to bian­chi e lo scial­let­to da casa gial­lo paglie­ri­no che spic­ca­va­no nel­la penom­bra del­la stan­za da letto.

«Buon­gior­no, signo­ra!» la salu­tò affa­bil­men­te «L’ho for­se disturbata?»

«No…no» si scher­mì lei, improv­vi­sa­men­te tor­na­ta padro­na di sé «È che a que­st’o­ra sono sem­pre in pie­di. Sa… risve­glio pre­co­ce… è col­pa dell’età…»

«Non dica così,» ribat­tè galan­te­men­te il signor Mau­ro «che è anco­ra una ragazzina!»

E la Ines, invo­lon­ta­ria­men­te, si aggiu­stò i capelli.

In quel­la, il sac­co uma­no a ter­ra emi­se un gemi­to più for­te, qua­si arti­co­la­to in una richie­sta di aiuto.

«Ooops…» si scu­sò il signor Mau­ro, strin­gen­do­si nel­le spal­le e allar­gan­do le brac­cia all’in­di­riz­zo del­la sua vicina.

Si chi­nò, affer­rò una man­cia­ta di ter­ra e ghia­ia dal via­let­to e la cac­ciò a for­za nel­la boc­ca del disgra­zia­to, che comin­ciò a tos­si­re disperatamente.

E fu in quel momen­to, esat­ta­men­te in quel momen­to, che alla signo­ra Ines accad­de qual­co­sa che avreb­be cam­bia­to per sem­pre il cor­so del­la sua (fino ad allo­ra) mono­to­na esistenza.

«… tumo­re al cer­vel­lo…» bal­bet­tò la sua men­te come pri­ma rea­zio­ne, cer­can­do dispe­ra­ta­men­te ricor­di recen­ti dal­l’En­ci­clo­pe­dia Medi­ca a dispen­se, o dal TG2-medi­ci­na33 di Lucia­no Onder.

Poi anche i pen­sie­ri si spen­se­ro, e pote­va solo guardare.

C’e­ra qual­co­sa, fra i suoi occhi e il mon­do ester­no. O for­se era die­tro agli occhi, fra que­sti e la sua mente.

Uno scher­mo colo­ra­to, una tavo­loz­za di colo­ri in sovrim­pres­sio­ne alla sce­na che sta­va guar­dan­do, con chiaz­ze can­gian­ti che muta­va­no for­ma, dimen­sio­ne, posi­zio­ne e sfu­ma­tu­ra cro­ma­ti­ca, come “cose” al micro­sco­pio elet­tro­ni­co in un ser­vi­zio di Pie­ro Angela.

Ebbe pau­ra, e una chiaz­za ros­so-bru­na sul­la sini­stra del­lo scher­mo aumen­tò in lar­ghez­za e intensità.

Ne fu incu­rio­si­ta, e subi­to un’a­rea gial­lo bril­lan­te pre­se a pul­sa­re vivacemente.

Que­sto la diver­tì, e un deli­ca­to, liqui­do velo rosa pre­se a flui­re fra le altre chiaz­ze di colo­re, mesco­lan­do­si ad alcu­ne ed evi­tan­do­ne altre, come per sfuggirle.

La signo­ra Ines si appog­giò alla pare­te con le gam­be dive­nu­te mol­li, sbat­té gli occhi più vol­te, li sfre­gò con le mani, scos­se il capo, poi tor­nò a guar­da­re fuo­ri dal­la finestra.

Il suo vici­no, che nel frat­tem­po era riu­sci­to a tra­sci­na­re il cor­po sul­la stra­da e sta­va rien­tran­do, la salu­tò con un gesto del­la mano e un sor­ri­so d’intesa.

Lei ricam­biò, e per un istan­te la tavo­loz­za scom­par­ve. O meglio: c’e­ra anco­ra ma… non c’e­ra! Era come se, nel rivol­ge­re la sua atten­zio­ne ad altro, l’a­ves­se esclu­sa. Come se ci fos­se pas­sa­ta attra­ver­so con lo sguardo.

Le ven­ne­ro in men­te i segni sul para­brez­za del­la sua Twin­go (ulti­mo ran­to­lo – ormai qua­si ven­ten­na­le – di una gio­ven­tù mai con­su­ma­ta). Gui­dan­do, pote­va veder­li o non veder­li a suo pia­ci­men­to, solo cam­bian­do la mes­sa a fuo­co del­lo sguardo.

Pro­vò a fare la stes­sa cosa con lo scher­mo colo­ra­to, e si accor­se che era anco­ra più faci­le che con i segni sul parabrezza.

Uno scat­to del­la men­te, e c’e­ra. Un altro scat­to, e non c’e­ra più.

Ma la sco­per­ta più sor­pren­den­te fu un’al­tra, e coin­ci­se con lo squil­lo del­la sve­glia, che tene­va pun­ta­ta alle set­te, nono­stan­te la cer­tez­za di un risve­glio pre­co­ce, per ricor­da­re a se stes­sa che era ora di pre­pa­rar­si per anda­re al lavoro.

Dun­que la sve­glia squil­lò, e la Ines, come ogni mat­ti­na, ven­ne pre­sa dal­la fret­ta e dal­l’an­sia, pur sapen­do che, come ogni mat­ti­na, sareb­be arri­va­ta in uffi­cio con un buon die­ci minu­ti di anti­ci­po su tut­ti gli altri.

La fret­ta die­de vita a una gros­sa mas­sa ver­de scu­ro, che pre­se ad agi­tar­si e a pul­sa­re furiosamente.

L’an­sia, inve­ce, era vio­la­cea, e ten­de­va ad allar­gar­si con pro­pag­gi­ni pri­ma sot­ti­li e poi sem­pre più con­si­sten­ti, in sin­cro­nia con lo sgra­de­vo­le cor­teo dei sin­to­mi psi­co­fi­si­ci del­lo stress.

“Ci vor­reb­be del bian­co!”: non fu un pen­sie­ro coe­ren­te, ma piut­to­sto una rea­zio­ne istin­ti­va, come quel­la si sfre­ga­re la pel­le quan­do ci si scot­ta, cucinando.

Però fun­zio­nò.

Il vio­la cupo diven­ne a poco a poco un deli­ca­to cicla­mi­no, ridu­cen­do­si alle dimen­sio­ni di un bot­to­ne da cap­pot­to, e intan­to lo sto­ma­co smet­te­va di bru­cia­re, il ven­tre si rilas­sa­va, il cuo­re e il respi­ro tor­na­va­no a un rit­mo cal­mo e regolare.

Pro­vò a schia­ri­re e a ridi­men­sio­na­re anche il ver­de scu­ro del­la fret­ta, e subi­to si accor­se che i movi­men­ti ral­len­ta­va­no e che, tut­to som­ma­to, non le impor­ta­va più un gran­ché di arri­va­re in orario.

La sco­per­ta di poter influi­re sul­le pro­prie emo­zio­ni la entu­sia­smò (l’en­tu­sia­smo era una chiaz­za ros­so-aran­cio, che ten­de­va ad allar­gar­si di scat­to, come un pal­lon­ci­no che esplo­de), e per­se una mez­z’o­ra buo­na sul­la sua con­sue­ta tabel­la di mar­cia per fare esperimenti.

Evo­cò sen­ti­men­ti di tut­ti i tipi, li osser­vò nel­la loro for­ma visi­bi­le, li mani­po­lò, con­sta­tan­do­ne gli effet­ti sul cor­po e sul­la men­te, per poi ripor­li ordi­na­ta­men­te in un ipo­te­ti­co “magaz­zi­no del­le emo­zio­ni”, come fos­se­ro abi­ti pron­ti per la nuo­va stagione.

E final­men­te uscì di casa, dopo aver “indos­sa­to” un giu­sto mix di cal­ma, sicu­rez­za e autostima.

Supe­rò il capan­nel­lo dei vici­ni che si affol­la­va intor­no al cor­po a ter­ra – for­se vivo o for­se no – in pro­ba­bi­le atte­sa del­l’am­bu­lan­za, salu­tan­do quel­li che alza­ro­no lo sguar­do su di lei.

Qual­cu­no rispo­se distrat­ta­men­te al salu­to e qual­cu­no, come al soli­to, la ignorò.

In qua­lun­que altro gior­no avreb­be tira­to drit­to, cer­can­do di ricac­cia­re giù l’a­stio come un rigur­gi­to acido.

Ma non quel­la mat­ti­na. Per­ché ades­so, final­men­te, pote­va decidere.

Si fer­mò, tor­nò sui suoi pas­si, bat­té edu­ca­ta­men­te sul­la spal­la del signor Cam­pe­del­li – uno dei più male­du­ca­ti – e lo invi­tò ad anda­re a fare in culo.

Per la veri­tà non era pro­prio sicu­ra di aver usa­to l’e­spres­sio­ne giu­sta (di soli­to in tele­vi­sio­ne dico­no “vaf­fan­cu­lo” tut­to attac­ca­to, ma a lei sem­brò più con­ge­nia­le la for­ma este­sa, anche se non capi­va bene cosa si potes­se “fare”; e poi nel culo di chi?).

In ogni caso, però, la cosa fun­zio­nò, e la Ines poté allon­ta­nar­si sor­ri­den­do, sot­to lo sguar­do ester­re­fat­to del signor Cam­pe­del­li e di quan­ti, intor­no a lui, ave­va­no potu­to sentirla.

Sta­va anco­ra sor­ri­den­do quan­do mon­tò sul­la Twin­go, evo­cò la giu­sta grin­ta e mise in moto, slit­tan­do sul­l’a­sfal­to umi­do e facen­do schiz­za­re via il gat­to che ave­va scel­to la sua auto come ostel­lo per la notte.

Il tra­git­to ver­so l’uf­fi­cio, pri­ma in mac­chi­na e poi a pie­di, non le era mai sem­bra­to così pia­ce­vo­le, vario e stimolante.

Tut­ta con­cen­tra­ta su se stes­sa e sul suo nuo­vo affa­sci­nan­te “super­po­te­re”, non si accor­se nem­me­no di quel­lo che sta­va acca­den­do in città.

Le capi­tò – è vero – di dover schi­va­re un paio di vol­te auto di tra­ver­so sul­la car­reg­gia­ta, o di imbat­ter­si in qual­che suo con­cit­ta­di­no dal fare distin­to che bran­di­va spran­ghe di fer­ro o attrez­zi da giar­di­no (rico­nob­be il signor Cal­za, del­l’o­mo­ni­ma fer­ra­men­ta, che la salu­tò agi­tan­do la moto­se­ga che reg­ge­va con entram­be le mani). Ma for­se fu ras­si­cu­ra­ta dal sor­ri­so che tut­ti sfog­gia­va­no, o dal­la loro aria tran­quil­la. Oppu­re era trop­po occu­pa­ta a osser­va­re e a modi­fi­ca­re le pro­prie rea­zio­ni emo­ti­ve, per far­si doman­de in proposito.

E poi c’e­ra qual­co­sa – o meglio qual­cu­no – che occu­pa­va una buo­na fet­ta dei suoi pensieri.

Ser­gio Fan­tin. Qua­ran­ta­no­ve anni. Celi­be. Bas­so, mol­le e pin­gue. Pra­ti­ca­men­te cal­vo, sot­to ai pochi lun­ghis­si­mi capel­li che obbli­ga­va con impia­stri ribut­tan­ti a per­cor­re­re tra­iet­to­rie impro­ba­bi­li lun­go il cuo­io capelluto.

Vice-diret­to­re. Stronzo.

Stron­zo come può esser­lo solo chi non ha altri leni­men­ti per la pro­pria nul­li­tà che l’e­ser­ci­zio di un pote­re auto­ri­ta­rio e inu­til­men­te coercitivo.

Stron­zo come se fos­se una missione.

Stron­zo come se fos­se in liz­za per il nobel degli stron­zi. E come se la Ines fos­se la sua pale­stra pri­va­ta dove allenarsi.

Da quin­di­ci anni.

Al prin­ci­pio ave­va pro­va­to a par­lar­ci, a lusin­gar­lo, ad adu­lar­lo, a impie­to­sir­lo. Ma sen­za alcun risul­ta­to. Anzi, sem­bra­va che ci pro­vas­se un mag­gior gusto a umi­liar­la in modi sem­pre più raffinati.

Cer­to – come le dice­va­no sem­pre i col­le­ghi – avreb­be dovu­to rea­gi­re! Non avreb­be dovu­to lasciar­si met­te­re i pie­di in testa! Qual­cu­no, pri­ma di lei, ave­va rispo­sto per le rime, e la musi­ca era cam­bia­ta. Oh sì, se era cam­bia­ta! Can­tar­glie­le chia­re, ecco la solu­zio­ne! Sen­za peli sul­la lin­gua e a muso duro!

Pur­trop­po però non era la sua sto­ria. Ave­va pro­va­to a con­vin­cer­si. Ave­va addi­rit­tu­ra pro­va­to la sce­na a casa, davan­ti allo spec­chio, ma poi, al momen­to oppor­tu­no, le era man­ca­to il coraggio.

Fin­ché, alla fine, si era ras­se­gna­ta a subi­re, a sof­fri­re, a ingo­ia­re, con l’u­ni­co magro sol­lie­vo del­l’im­mi­nen­te pensionamento.

Ma non oggi.

Per­ché da oggi, final­men­te, pote­va decidere.

Non andò nem­me­no a tim­bra­re l’en­tra­ta per diri­ger­si subi­to, schie­na drit­ta e pas­so velo­ce, ver­so l’uf­fi­cio del vice-diret­to­re Fantin.

Non si impen­sie­rì del fat­to che i col­le­ghi pre­sen­ti fos­se­ro vera­men­te trop­po pochi, né che i pochi pre­sen­ti fos­se­ro tut­ti affac­cia­ti alle fine­stre, richia­ma­ti da ciò che sta­va acca­den­do di sotto.

Con disin­vol­ta sicu­rez­za, nel bre­ve tra­git­to evo­cò dal suo “arma­dio del­le emo­zio­ni” la rab­bia più ros­sa, la incen­diò di astio fero­ce, la irro­rò con la ben­zi­na di una vio­len­za sel­vag­gia e pri­mor­dia­le, poi con­ge­lò il tut­to con la fred­da pre­ci­sio­ne di un chi­rur­go, fin­ché si sen­tì pronta.

Fer­ma, davan­ti a quel­la por­ta che trop­pe vol­te ave­va temu­to di dover var­ca­re, la Ines ades­so sorrideva.

In un altro luo­go, anche Zor-tah-ka sor­ri­se, inchi­nan­do­si ai pie­di del som­mo Askhariel.

«Dun­que?» chie­se que­sto, toc­can­do­la sul capo col pugno chiu­so per accet­ta­re la sua sot­to­mis­sio­ne e invi­tar­la ad alzarsi.

«È ini­zia­ta. Gli osser­va­to­ri rife­ri­sco­no che gli uma­ni più sen­si­bi­li sono già pie­na­men­te ope­ra­ti­vi, e sti­ma­no che entro ven­ti­quat­tr’o­re l’in­te­ra zona cam­pio­ne sarà coin­vol­ta nel Processo.»

«Così sia. Avver­ti la con­fra­ter­ni­ta dei sacer­do­ti di aumen­ta­re la poten­za d’in­flus­so, e di esten­de­re l’a­rea quan­to pos­si­bi­le. Per doma­ni all’al­ba voglio coin­vol­ta tut­ta la nazione.»

Zor-tah-ka abbas­sò il capo: «La tua volon­tà è desti­no, signore.»

Que­sta vol­ta toc­cò ad Askha­riel, di sor­ri­de­re: «Da tre­mi­la anni gli esse­ri uma­ni per­se­guo­no il sogno del pie­no con­trol­lo emo­ti­vo. Han­no ela­bo­ra­to teo­rie e inven­ta­to pra­ti­che, costrui­to reli­gio­ni e crea­to inte­ri siste­mi di pen­sie­ro, nel­l’il­lu­sio­ne di poter­si evol­ve­re per­ver­ten­do la loro stes­sa natura.»

Arre­trò di qual­che pas­so fino al tro­no di ossi­dia­na, dove sedette.

«E final­men­te» ripre­se poi «gra­zie a noi il loro sogno potrà rea­liz­zar­si. Non solo avran­no acces­so alle loro emo­zio­ni, ma potran­no far­ne ciò che vor­ran­no, con pie­no con­trol­lo. Cia­scu­no secon­do la pro­pria natu­ra e…» fece una pau­sa «cia­scu­no secon­do la pro­pria evoluzione!»

Rise, e Zor-tah-ka si unì a lui.

«Quan­do cre­di che sarà com­ple­ta­to, il Pro­ces­so?» chiese.

«Anco­ra non so dir­lo. Con Atlan­ti­de ci sono volu­ti qua­si tre mesi, però oggi sia­mo mol­to, mol­to più for­ti… Ma ora và, e por­ta alla con­fra­ter­ni­ta dei sacer­do­ti i miei ordini!»

Zor-tah-ka si inchi­nò nuo­va­men­te e ini­ziò ad arre­tra­re, pro­stra­ta, per lascia­re la sala del trono.

Il som­mo sacer­do­te la guar­dò allon­ta­nar­si, in silen­zio, com­pia­ciu­to di lei.

Poi si alzò dal tro­no e si dires­se alla sala ros­sa del tem­pio, per ren­de­re ono­re ai Signo­ri del Caos.

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Alb

Ma tu non sei Franz! Però com­pli­men­ti! Mi gar­ba la prosecuzione!